Sulla Marcia di Altamarea (manifestazione a Taranto per l’ambiente), il racconto della giornalista Francesca Rana

Quello che segue è il racconto di Francesca Rana, giornalista e radio speaker che ha saputo riassumere benissimo, secondo me, quanto avvenuto durante la manifestazione del 28 Novembre scorso per l'ambiente, la famosa (solo a Taranto, visto che sui media nazionali siamo stati letteralmente CAGATI DI STRISCIO) AltaMarea:

La Grande Marcia per l'ambiente, il lavoro, la dignità (e la salute?)

Fabio Matacchiera: "Il campionamento continuo è un sogno. L'Arpa avvisa l'Ilva prima di fare i controlli, il popolo sta morendo e deve poter esprimersi con il referendum sulla chiusura almeno dell'area a caldo dell'Ilva".
Luigi Boccuni: "Non vogliamo chiudere l'industria, vogliamo il rispetto della legge sulla diossina".
Luigi Oliva: "I politici hanno molta fantasia, hanno votato una legge sulla diossina inutile".

Sono una giornalista ma prima di tutto sono una persona. E l’esperimento che voglio fare oggi è quello di trasferire su carta quello che ho sentito, ascoltato, visto durante la seconda Marcia per l’Ambiente del raggruppamento di associazioni “Altamarea” di Taranto (http://groups.google.it/group/altamareanews?pli=1) snodatasi nel borgo della città della Magna Grecia e dell’Industria Pesante in questo umido sabato di novembre.

Nessun appunto, solo la presenza in mezzo alla folla quando addosso ti restano le sensazioni ed i messaggi in grado di far riflettere e decidere se cambiare idea o potenziare la propria convinzione. Un racconto rivolto a chi vorrà leggere.

Sotto la lente di ingrandimento, c’è la tensione sociale vissuta a Taranto, all’ombra di una imponente zona industriale che ormai non va più d’accordo con parte dei suoi abitanti, che sul balcone trovano polvere nera e rossa, che a seconda del vento respirano polveri sottili e minerarie, che mangiano cibi esposti a queste polveri. E che, però, nel risvolto della medaglia in quelle industrie ci lavorano e se devono scegliere tra povertà e rischio di malattia, scelgono di rischiare di ammalarsi sperando di poter mandare i propri figli via, un giorno.

marciaaltamarea

Foto scattata nel 2005 all'alba quando iniziava la traversata Metaponto-San Vito di Fabio Matacchiera a nuoto.

Le due facce del problema sono queste e sono il motivo delle resistenze culturali, delle fazioni, del dubbio su come venirne fuori: con un compromesso o con una svolta dal sapore di rivoluzione? La partecipazione dei tarantini è stata massiccia, forse superiore a quella del 2008, tuttavia in questi casi le cifre sono indicative, si sparano sempre con molta approssimazione. Se l’anno scorso si disse che erano 20.000 a marciare forse stavolta erano almeno 5 o 10.000 in più. Se invece erano più probabilmente 10.000, magari ora sono 20.000. E chi lo sa!!!!

Senz’altro erano in tanti, senz’altro hanno riversato cori e slogan nel corteo che ha attraversato via Di Palma e Via D’Aquino fino a Piazza Garibaldi. Senz’altro era una marcia variopinta, multiforme, controversa che racchiudeva dentro di se tanti chiaro scuri, radicalismi e compromessi, la voglia di bonifica o la richiesta di eco-compatibilità industriale. Insomma, chi la vuole cotta e la vuole cruda questa pietanza che è l’ambiente. In entrambi i casi, si ritiene di aver ragione, di aver interpretato al meglio il cuore del problema compresso tra le esigenze del lavoro nell’industria pesante e quelle della conversione e del sostegno all’agricoltura ed agli allevamenti annientati come capro espiatorio della battaglia contro la diossina.

Era una marcia piena di partecipanti ma non partecipativa, perché conteneva note intonate e stonate che rivendicavano la possibilità di alzare la voce. Sarà questo il nocciolo della questione? I tarantini sono stanchi di essere storditi dal sistema e cercano di uscire dalle sabbie mobili. Hanno approfittato della possibilità tanti giovani, sicuramente altrettanti precari che da questo Presente spalmato nell’ultimo decennio stanno ricevendo l’ingratitudine peggiore, le porte chiuse in faccia perché non possano contare nella società, essere indipendenti e pronti a decidere del loro futuro, costantemente rifiutati dalla casta degli stabilizzati che non è disposta ad inserirli alla pari nel mondo del lavoro.

C’erano tanti cori ma non c’era un urlo corale e tra i tanti appelli non previsti dal direttivo, quello di Fabio Matacchiera ha rotto indubbiamente lo schema progettato, costringendo Altamarea a fare i conti con le diverse forme di ambientalismo, compresa quella più temeraria e coraggiosa, che non ama ragionare in politichese, di chi da un ventennio lotta da solo e lo fa per la salute dell’ambiente, prima di tutto. Questa irruzione ha fatto vacillare la serenità del cerimoniale ed ha fatto conoscere a parte della piazza un altro aspetto della questione, se pure in maniera molto impetuosa, perfino fin troppo, tanto da compromettere la resa e l’efficacia di quell’attimo fuggente di impulso, su un palco che, pare, era stato negato dagli organizzatori.

Altamarea non è un’associazione, è un insieme di sensibilità spesso contradditorie e contrapposte e sta diventando sempre di più un Vortice ricco di correnti che tenta di essere unito e non riesce fino in fondo in questa sfida: c’è chi vuole dialogare con le dinamiche della politica, e chi di quelle dinamiche non si fida più. Tutto questo può sembrare un valore aggiunto, qualcuno ha detto “un vaccino” contro la strumentalizzazione, oppure un monumento all’incoerenza della piattaforma di Altamarea. Ogni opinione è lecita. In un caso, si riesce a dialogare con la politica partitica, in altri non si dialoga in assenza di fiducia. In altre parole, i primi si sentono cittadini attivi se possono sedersi al tavolo con politica e sindacati, i secondi non vogliono mischiarsi nelle logiche dell’inciucio trasversale.

Nel 2008, si arrivò a quella marcia dopo una prima prova del 9 della marcia dei bambini contro l’inquinamento guidati dal pediatra Giuseppe Merico, diventato tempo dopo il primario del reparto di pediatria dell’ospedale Santissima Annunziata.

Alcuni programmi televisivi, le Iene, Malpelo, avevano scosso l’opinione pubblica che verificava giorno dopo giorno di avere almeno un parente con una grave malattia, con il cancro, un problema cardiovascolare o respiratorio, una dermatite atopica.

La coscienza ambientale stava nascendo in chi non l’aveva mai avuta mentre contemporaneamente la Grande Industria non sembrava più garantire nemmeno i livelli occupazionali.

D’altro canto si cominciava ad avvertire l’esigenza di un risarcimento, quello impedito con il ritiro degli enti pubblici, Comune e Provincia, della costituzione di parte civile nel processo contro i parchi minerari dell’Ilva ancora scoperti. La condanna arrivò, contro l’Ilva, il più grosso stabilmento, ragione alla base del dito indice puntato contro il Gruppo Riva, ma senza quella parte civile il risarcimento non c’è stato.

La società ha iniziato a metabolizzare tutto questo mentre anche la dialettica politica, sindacale, industriale proseguiva nel suo percorso già tracciato senza cambiare la direzione avuta fino a quel momento.

Sia nel 2008, sia nel 2009, il 28 novembre scorso, Altamarea ha provato ad accettare le adesioni di tutti: sia i neo ambientalisti che sognano la conversione sia i sindacati che firmano patti di stabilità sul modello di sviluppo con la Confindustria e che ad un incontro del Centro Studi di Confindustria all’Histò hanno concordato sull’efficacia del modello di sviluppo deciso 50 anni fa e sull’impossibilità di credere ad un’alternativa, roba da capipopolo.

La coscienza ambientale sta nascendo in tutti ed ognuno ritiene di poter raggiungere il miglioramento della qualità della vita con un metodo diverso, marciando nello stesso corteo, percorrendo però metaforicamente un altro itinerario.

Questo si percepiva prima e si è percepito durante, assistendo alla manifestazione finale di Altamarea, in piazza Garibaldi, nonostante parte del corteo non fosse ancora arrivata, perdendosi di fatto l’opportunità di interagire e sentire con le proprie orecchie.

Si sono alternate alcune voci di coordinatori del direttivo e tra di loro stessi non c’era sintonia. Ad esempio qualcuno riteneva importante, come il portavoce Luigi Boccuni, aver spronato la promulgazione della legge regionale sull’abbattimento dei livelli di diossina, qualcun altro invece diceva l’esatto opposto, come Luigi Oliva, del Comitato per Taranto e cioè che quella legge era una prova di fantasia della stessa politica che aveva votato una normativa inutile, inattuata, che i politici in passerella chiudevano gli inceneritori per riaprili subito dopo. In mezzo, ci sono state l’esibizione di Franco Cosa ed altri musicisti, le parole di chi ha perso parenti sul posto di lavoro, operai che chiedono l’ambientalizzazione dell’Industria.

Il corteo era lo specchio di questa difformità di ragionamento. C’era chi manifestava per la convivenza tra la città ed un’industria pesante eco-compatibile se si rispetteranno alcune leggi, chi manifestava per l’avvio di un dialogo complesso e lungimirante sulla conversione del comparto industriale e sulle bonifiche, e non ha parlato sul palco, chi marciava con candore semplicemente per poter respirare l’aria pulita senza fumo salvo poi sorbirsi le sigarette di tanti, ambientalisti e non, lungo il corteo. Purtroppo, la coscienza ambientale non ammette eccezioni, il fumo di sigaretta uccide quanto l’inquinamento e dispiace che molti non accettino questo parallelismo scientificamente provato e che non si impongano l’astinenza in mezzo alla folla. C’era, poi, chi manifestava per il referendum sulla chiusura dell’area a caldo dell’Ilva. Gente comune, cittadini, che sposavano una direzione e che senza mettersi d’accordo con i promotori del referendum proponevano quella soluzione. Dunque, essi stessi erano un coro tra tanti, imprevisto, imprevedibile.

Allora, succedeva che, mentre l’operaio parlava, qualcuno dalla piazza urlava di non volere più l’industria. O, mentre qualcuno dal palco invitava al compromesso e non chiedeva la chiusura dello stabilimento, dalla piazza si invocava con i megafoni il referendum.

Ogni sentimento era rappresentato in quella piazza ed il tentativo di oscurare ognuna di quelle voci senz’altro non è condivisibile. Il direttivo di Altamarea ha scelto di marciare consapevole al 50% delle difformità di pensiero, scopo e strategia di tanti, accettando di accostarsi ad alcuni e non accettando di accostarsi ad altri almeno riguardo alla scelta dei punti in piattaforma. Un discorso tutto sommato verticistico non speculare alle passioni civili incontrollabili della piazza.

Sarebbe uno sbaglio se ci fossero delle prepotenze dietro queste scelte. Perché sono le facce della stessa coscienza ambientale ritrovata che non potrà ritornare indietro ed assumerà sembianze e pareri non ancora tutti espressi e chiariti.

I momenti più intensi della manifestazione finale sono stati il monologo teatrale di Maria Elena Leone tratto da un testo di Giorgio Gaber Mi fa male il mondo che metteva in luce la crisi etica della politica, e l’intervento di Luigi Oliva del Comitato per Taranto (http://comitatopertaranto.blogspot.com/) che dava voce a chi ha parecchi dubbi sulla trasparenza della classe dirigente e che diceva comunque “non vogliamo né eroi né complici”.

Fuori dagli interventi di rito, però, qualcosa, vi raccontavo qualche riga fa, ha scosso la liturgia messa a punto: un uomo con un megafono, ha iniziato ad urlare, vicino a chi aveva confezionato striscioni ed una bara molto simbolica con sopra scritto un appello alla convocazione del referendum sulla chiusura dell’area a caldo, almeno, dell’Ilva, il più grosso tra gli insediamenti di industria pesante, sul quale pesa una sentenza di condanna per la mancata copertura dei parchi minerari.

La piazza, in quell’istante, non ha capito. Avrà pensato: “Sarà forse un esaltato”? Un pazzo? E perché il direttivo di Altamarea, gli esponenti di Legambiente lo attaccano dal palco, non vogliono farlo parlare mentre contemporaneamente altri gli dicono “Parla, parla”!?

In questo frangente critico, il presentatore Mauro Pulpito ha compreso. Lo ha riconosciuto ed ha afferrato che non era stato inserito nella scaletta degli interventi: Era Fabio Matacchiera, storico ambientalista di Caretta Caretta, pioniere delle crociate ambientali a Taranto degli anni ’80, colui che si batteva da solo contro l’inquinamento quando il livello di consapevolezza della città della correlazione tra inquinamento e malattie era ancora troppo basso. Lui si batteva solitario (come Aiutiamo Ippocrate e molti anni dopo Peacelink) insieme ai suoi attivisti, documentando l’attività della Grande Industria e sollecitando dubbi sugli inquinanti, presenti già all’epoca, nell’aria, nella terra, e nel mare laddove vorrebbero fare i dragaggi, che porterebbero qui altre grosse navi, nonostante il lavoro per i tarantini del posto sia scarso. Lui ha rischiato la sua incolumità, si è immerso in acque torbide per filmare i fanghi tossici, ovvero il modo in cui il mare lanciava lamenti di sofferenza prima che gli esseri umani si risvegliassero e cominciassero a chiedersi se tra quei fanghi e le emissioni ci fossero degli inquietanti nessi. All’epoca, Fabio Matacchiera era solo insieme ai suoi amici. E, chi oggi marcia, non conosce la sua storia perché a quei tempi non aveva quella coscienza, né c’erano molte occasioni di sapere delle sue indagini e dei suoi blitz degni di Greenpeace, secretati. E, quindi, non sa che il palazzo della coscienza civica è stato costruito anche con le fondamenta del suo impegno e su quello, inconsapevole, è cresciuto fino ad arrivare al passato recente.

Oggi, non sapendo, la gente non riesce a confrontarsi con la sua esperienza, non sa come reagire all’impeto di chi per 20 anni ha parlato al muro ed ha cercato per tanto tempo quasi invano chi accettasse di esaminare i fanghi che aveva raccolto, terminando il suo sfogo con una reazione emotiva e sentita. Eppure, parecchi hanno applaudito.

Spesso, succede che quando la moltitudine si sveglia grazie all’eco del campanello d’allarme di qualcuno, lanciato molto tempo prima, non sia in grado di sapere quale sia la fonte di quel campanello, riuscendo solo ad avvertire l’impatto dell’ultima onda sonora, il tonfo dell’ultimo tassello del domino, e non il primo calcio all’indifferenza.

Si chiedeva, dal palco, il “Rispetto per i Tarantini”. Beh, Fabio Matacchiera è il testimone di anni ed anni vissuti senza avere quel rispetto ed è singolare che oggi non si sia capito quanto poteva essere importante condividere le sue conoscenze e raccontare la sua storia personale – magari nella scaletta di quella manifestazione – che lo ha spinto perfino quest’anno a divulgare il dossier sulle verità nascoste dove metteva insieme ancora una volta i dati degli anni precedenti.

Non riuscendo nell’impeto della situazione a lanciare i giusti messaggi, successivamente alla stampa Fabio Matacchiera dichiarava in diretta su Studio 100: “Il campionamento continuo non è iniziato, l’Arpa, secondo il protocollo, avvisa l’Ilva prima di fare i controlli”.

Forse, se la sua storia fosse stata raccontata tra le testimonianze dell’ambientalismo e delle battaglie per la sicurezza sui posti di lavoro, la piazza avrebbe capito un po’ meglio chi era chi urlava “l’Ambiente è di tutti, non è di Altamarea”.

Tutto questo cosa significa? Che la piazza stava iniziando a manifestare contro se stessa, contro il suo obiettivo, forse perché un obiettivo unitario non c’era nemmeno prima. Forse perché si arriva ad oltre 20.000 unendo chi vuole l’industria, il lavoro e l’ambientalizzazione, e chi vuole il risarcimento ed una conversione. Mi chiedo se si possa marciare insieme. Se uno vuole, si può fare, il risultato però è l’equivoco. Ed, allora, alcuni esponenti politici magari rasserenati dal tenore di alcuni interventi e spinti a rilasciare dichiarazioni anche alle tv, disapprovavano invece ad esempio le parole di Matacchiera, Oliva o il monologo dell’attrice. Accadeva perché dallo stesso palco non si andava verso la stessa direzione? In alcuni casi condivisa dalla partitocrazia, in altri no? Al di la di chi ha rilasciato raffiche dichiarazioni alle tv, tra i più contrariati dalle parole pronunciate contro l’etica della politica, c’era Michele Pelillo, assessore regionale, rimasto sotto il palco, che esprimeva il suo dissenso, nel dietro le quinte, mentre l’attrice circondata dal suo gruppo teatrale di sostegno, difendendo la sua scelta di teatro civile lo accusava di anti-democraticità.

I focolai di discussione crescevano agli angoli della piazza tra direttivo e amici del direttivo e tra le tante parole, Paola D’Andria, presidente dell’Ail di Taranto, tuonava “La politica di oggi ancora non si merita di essere considerata una buona politica”.

I toni si erano inaspriti. E la piazza continuava a manifestare contro se stessa, ormai a riflettori spenti, mentre numerosi blogger amatoriali riprendevano ogni cosa, senza escludere nemmeno i commenti sulla trasmissione in diretta su BS la sera prima, Polifemo, quando nella contesa politica venuta fuori, Michele Pelillo avrebbe accusato Pietro Franzoso di non poter parlare di ambiente perché aveva interessi nelle ditte appaltatrici dell’indotto.

La perplessità sul cammino intrapreso si insinua nel pensiero.

I tempi potrebbero essere maturi per costringersi a fare scelte chiare e spiegare davvero a chi aderisce ad Altamarea, qual è la meta, qualunque essa sia.

Affinché sia una sola, nel bene o nel male. E che alla quantità dell’affluenza si preferisca la qualità ed omogeneità dell’adesione. In modo da consentire a questa coscienza ambientale di esprimersi con coerenza e non con confusione come è capitato il 28 novembre 2009.

Questo è solo un racconto, il mio. Però è anche la mia opinione. Io penso che Taranto sia una città inquinata ed ammalata, dentro, nell’inconscio, e che sia d’altro canto povera e bisognosa di lavorare. Sogno dunque una società in grado di tracciare un percorso di progettazione dello sviluppo futuro in chiave alternativa nel quale impiegare chiunque stia temendo per il suo lavoro. Una città che non usi la prepotenza palese o occulta e markettara per impedire la libertà di espressione e che possa confrontarsi con l’aiuto della ricerca, serenamente, su uno dei futuri possibili. Volti a ritrovare le vocazioni seppellite nell’oblio dei ricordi di una terra dell’archeologia e dell’enogastronomia, del teatro e della musica, del turismo e della cultura, delle tradizioni e dei riti quando quelle ciminiere di tutti i siti dell’Industria Pesante non esistevano.

Un’indagine del Cnr di Pisa, sulla quale scrissi nel 2006, li considerava già fattori di rischio collegati all’aumento di mortalità per determinate patologie: “I fattori di rischio ambientali presenti sono riconducibili alla presenza di un’acciaieria a ciclo integrale tra le più grandi d’Europa, una raffineria petrolchimica di grandi dimensioni, un cementificio di importanza nazionale, due centrali termoelettriche ed ai rispettivi consistenti flussi di merci e materie prime. Accanto a questi grandi impianti sono presenti stabilimenti di manufatti di gomma e di materie plastiche, stabilimenti chimici che producono smalti sintetici, vernici e colle, stabilimenti che trattano e producono derivati del petrolio e del carbone, altri di metallurgia di seconda lavorazione, di costruzione e lavorazione di parti meccaniche, di elettrotecnica ed elettronica”. Ed ancora dissero i ricercatori in quel 14 dicembre del 2006: “Il responso è negativo: di tumore e patologie associabili alle esperienze lavorative si muore sempre di più. Particolarmente preoccupante è l’incidenza dei tumori al polmone, alla pleura, alla vescica. Altre patologie, ad esempio le malattie dell’apparato respiratorio e la polmonite, associabili sia all’abitudine al fumo sia ai livelli elevati di inquinamento atmosferico, nel passato erano meno nocive. La prevenzione diventa, quindi, urgente”.

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